Dunque, lo strombazzamento dei media attorno a quest’opera s’è fatto dilagante. Dico subito che il film non l’ho visto, forse lo vedrò, forse invece mai. Ma fedele all’impostazione di queste pagine, l’ho sicuramente (s)visto, cioè – lo chiarisco a beneficio di quelli che magari ancora cercano pure qui, tra queste righe, la recensione giornalistica finto colta e certo inoffensiva con tanto di riassuntino, stellette e zero spoiler perché ancora credono alla trama e ai giochetti degli sceneggiatori che hanno fatto la scuola giusta – ne ho letto, quindi, sempre per caso, e a sufficienza per evitare di parlare del film e proprio per questo per parlare del film, fedele al fatto che di letteratura qua si vuol trattare proprio scrivendo d’altro e che quindi ogni premessa è occasione per cianciare, sapendo press’a poco da dove si parte ma mai di certo dove si approda. Dunque, dicevo: grancassa di lodi da parte dei conformisti della penna alla messa in scena dell’autore nero che penalizzato dal fatto d’essere per niente l’autore nero che il mainstream bianco nella fiction apprezza – che nella realtà è altro paio di maniche e lo scrittore nero è proprio da cliché, black fuori e candido dentro – si impegna a diventare per avere il grano, necessario ai bisogni certo mai valore in sé, il nero che non è. Autore fake di fiction, perciò. Come il titolo in parte esplica già. Del film dicevo importa poco. Più interessante il meccanismo che lo produce a meno che non si voglia credere, ingenui, che la pellicola rappresenti davvero una critica al modus operandi dopo quello editoriale anche della fabbrica hollywoodiana, visto che come prassi al bestseller segue adattamento, anche quando hollywoodiana non è nello specifico e per metonimia di ogni, dal cioccolato a big pharma. Ma partiamo dall’inizio, che qui è palese il funzionamento standard del sistema culturale e non. Una certa industria afferma con forza determinati valori. Si crea una bolla, sospinta da più parti, che di quei valori si fa portavoce e che ostracizza ogni forma di dissenso. Immediatamente accorrono, annusato il vento giusto, le truppe deputate alla propaganda: sgamati pronti a tutto pur di avere il loro tornaconto e pusillanimi senza pensiero quindi disponibili, sempre per convenienza, a farsi paladini di quello altrui. Chi si prova non dico a contestare, non essendo più quei tempi, ma a esprimere un ragionevole disaccordo viene perculeggiato e offeso e pure penalizzato dagli algoritmi ben prima d’essere sfacciatamente azzerato da quella stupidaggine della cancel culture che invece di fare il suo compitino in silenzio, ignara, riporta sul palcoscenico della storia proprio coloro che vorrebbe obliare, e al massimo, se tiene anch’egli al conto in banca, ingaggiato per fare da contraltare nel dibattito che sempre si vuole esprimere come democratico nella poco invidiabile posizione dell’esperto fuori di testa, dell’intellettuale sotto farmaci, del bastian contrario d’ordinanza o dell’anziano che può permettersi di dire ciò che vuole avendo già più di un piede nella fossa. Pare proprio che la verità della finzione, superata brillantemente anche la prova della messa in discussione, sia lì pronta a rilucere come una pepita sul fondo melmoso delle traballanti opinioni. E guai a chi osa esprimere dubbi in merito, portare contributi o semplicemente usare la propria testa per ragionare con l’enorme cervello che ammassandosi si fa tautologicamente profeta di se stesso affermando la sua propria visione del mondo in attesa d’esser rimpiazzato da quello della AI che nutrendosi di nient’altro che dell’enorme Hive Mind che tutto omologa nella Rete non fa che computare in dieci secondi – rilanciandolo – quel pensierino assunto a universale. Fino a qui nulla di sorprendente, dato che da sempre l’industria culturale è di supporto al pensiero che si vuole unico fingendosi plurale, nel ruolo prediletto del megafono da propaganda ligio a indirizzare le masse fabbricando aziendalmente il consenso intorno a idee, libri, film… mentre in piena auto-fiction finge di rispondere alle esigenze di un canone espressivo. Quel che fa sorridere non facesse piangere è come all’improvviso coloro che woke non erano pur professandosi tali per quieto vivere (e quindi fino a ieri, solo per restare nello specifico del film in questione, groupie incondizionati del pensiero che confonde inclusività e omologazione, politically correct con i desiderata di una fazione intransigente, razzismo e maleducazione, diritti delle sottoculture con mere operazioni di minstrel show con neri veri ma più finti dei bianchi truccati da neri, lgbtq+ elevati a dottori dell’umanità per l’appartenenza di genere e non per la qualità del pensiero, donne contente d’essere selezionate in quota rosa come bambine in divisa all’asilo per interpretare il ruolo degli uomini in quota patriarcato, gioppini col microfono in mano che danno del fascista volendo parlare anche senza la poltrona dove il microfono l’hanno appuntato stretto al petto quasi fosse una medaglia al merito, scrittori di narrativa che credono di fare la storia della letteratura…) si risveglino dal letargo intellettuale durante il quale si limitavano a tacciare come radical chic chiunque la pensasse diversamente (ancora una volta nella fiction nella quale non s’accorgevano d’esserlo loro, radical chic, proprio in quanto seguaci di un pensiero fluido e assai alla moda) e posti di fronte alla retromarcia in salita dell’industria – che altro non persegue che il suo fine d’essere al contempo per mere ragioni commerciali originale, alternativa e universale pur vantandosi d’essere autentica, e quindi disposta a ingoiare di tutto situandosi il suo fine precipuo nel ruttino liberatorio col quale si afferma da sempre dalla parte giusta del mondo – candidamente si ritrovino, e tutti assieme, a sperticare di lodi – e senza ombra di vergogna va da sé – proprio ciò che fino a ieri avevano deriso stabilendo come vero ciò che ora definiscono fake, e adesso fiction ciò che è vero, lo stereotipo e l’integrato nel sistema, felicitandosi ovviamente dell’Oscar assegnato da quell’industria che ora gode perché un nero non abbastanza nero affermando che i neri non sono solo ghetto, droga e malavita come piacciono ai lettori bianchi certifica come sono i neri che da sempre piacciono alla gente che piace, neri e bianchi indifferentemente: con lo smoking e la statuetta in mano, fuori dalla fiction ma ben dentro alla fiction che conta, al contempo schiavi e vincitori.
Edit: s(visto) il film: il presupposto è preso paro paro dalla Macchia Umana di Roth, Ellis e Bukowski sono citati a sproposito, soprattutto Ellis e soprattutto Bukowski (lol), e in generale la rappresentazione del mondo letterario ma pure di quello cinematografico è da cliché, ma soprattutto (ancora) il film è solo una family comedy rispettosa delle identità di genere in modo vomitevole (il fratello che si scopre gay, my gosh!) e non fa nemmeno ridere, e soprattutto (ultimo) non è nulla di ciò sui cui è stato scritto, il che potrebbe essere l’unica cosa che depone a suo favore.