Ripley, serie tv

Il Ripley senza talento non è titolo casuale, ripensando alla versione cinematografica col bellimbusto Matt Damon, di cui mai si è capito quale fossero i talenti, sempre che i medioman non abbiano proprio nella mediocrità, fisica e intellettuale, la loro forza: il segreto ingrediente che ne fa nella loro implausibilità il perfetto agente, più segreto al dunque Jason Bourne di James Bond. Questo di Andrew Scott è un Ripley talmente sinistro e in bianco e nero – come la fotografia che fa da filtro per la svenevolezza dei più che non s’accorgono del vacuo manierismo laddove si fa esercizio di bravura nel ridurre all’osso di seppia la costiera amalfitana – che dimentica proprio ciò che è essenziale del Ripley della Highsmith, il saper cioè accattivarsi con falsa benevolenza la simpatia e con questa la fiducia della coppia di scoppiati americani (nemesi del teorema Monti-Fornero sui choosy bamboccioni) in vacanza perenne con ingiustificate ambizioni artistiche e peggio esistenziali (i soldi non fanno la felicità solo di chi non sa viversela bene senza i soldi). Talmente urticante questo Ripley che nessuno lo inviterebbe nemmeno a un aperitivo in terrazza senza prima aver nascosto i coltelli della cucina, tantomeno gli concederebbe la funzione di lampadario per accendere passioni fulminate. Per rendere giustificabile il fatto che possano essere così docilmente abbindolati da un Ripley senza talento non resta che abbassare il livello dei comprimari alla sua ag-ghiacciante monocromaticità: così Dickie e Marge si trasformano dalla coppia perfettina Law-Paltrow nell’insipido cocktail Flynn-Fanning al quale aggiungere ulteriore ghiaccio diluisce ulteriormente il mix e che a un Ripley talentato produrrebbe immediata repulsione: partita troppo facile per un giocatore di talento. Alla fine, l’unico Mr Ripley con talento è colui che appare sullo sfondo a caricare la serie di un autentico enigmatico fascino: quel Caravaggio evocato nella doppiezza del Davide con la testa di Golia che fa della complessità la sua forza espressiva. Genio della luce che dove rivela nasconde, e viceversa, senza tema alcuno di confrontarsi col colore.

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Baby Reeinder, serie tv

Che sia vera o falsa la storia di Martha e Donny avrebbe nessuna importanza, ma tutti si affrettano a dichiararla vera, quella originale… per primo lui, Richard Gadd, protagonista, ideatore e sceneggiatore della serie… quella della vita vissuta dallo stesso Gaad, i più annoiati dalla loro stessa esistenza pure a cercare le tracce della Martha reale, assumendone inconsciamente proprio i tratti che a loro la rendono odiosa, nonostante il tentativo furbetto dell’autore di mischiare le carte creando, con la scusa del personaggio tridimensionale, a trecentosessanta gradi e blablabla… un character che per fisicità e doti di humour possa al contempo nella sua fastidiosa ingombrante onnipresenza suscitare qualcosa che abbia a che fare con l’empatia (in una platea di sfigati spettatori di Netflix l’immedesimazione con la parte presunta disturbante è servita immantinente con la facilità di una battuta scontata), stalker anch’essi al dunque se generalizzando s’intende lo sviluppo di un’attenzione morbosa nei confronti di qualcuno, in questo caso della donna che sta a monte del personaggio percepita come vera basandosi sulla sua identità di finzione.

Limitandoci alla fiction, ben sapendo che il falso del falso è vero, e che quindi della presunta materia reale, non avendone conoscenza, ci deve importare di nulla, resta dunque da desumere se il plot è sostenibile, se i personaggi sono attendibili e quale insegnamento se ne può trarre, se cioè ci dica qualcosa che ignoriamo sulla natura umana o se sia soltanto l’ennesimo serial che possiamo tranquillamente digerire come piacevole (disturbante è solo l’altra faccia dell’intrattenimento) prima di metterla nel dimenticatoio pacificandoci nella nostra ignoranza di noi stessi con la banale constatazione che i labirinti della mente siano assai complicati sotto il cielo nel mentre torniamo sereni agli obbrobri delle nostre relazioni considerate umane nel mentre tossiche sono sempre quelle altrui sulle quali ci sentiamo pure in diritto di sindacare.

Che dunque Martha sia quello che sia, una stalker malata di mente, e Donny un frustrato vittima di abusi sessuali, e stalker di se stesso per interposta persona, sono solo accidenti che non cambiano la sostanza di una relazione che diviene tale solo sulla carta e poi in digitale (ecco perché quell’insistenza non richiesta sulla derivazione dalla realtà) con la benedizione della produzione che nel ribaltamento dei ruoli fino a ieri sostenuti vede nella persecuzione femminile nei confronti del maschio (sessualmente confuso, anzi fluido come impone la linea) solo uno spazio commerciale da occupare al più presto (ma attenzione anche i gay sono cattivi!), essendo l’ideologia in primis liquida per cogliere ogni occasione che si presenti sul mercato. Quel che conta è che siamo di fronte a due personaggi (senza contare quelli di contorno a partire dalla terapeuta trans, in ossequio alla malintesa inclusione, marchio di fabbrica, incapace di gestire una malata di mente, per finire alla ex troppo carina per giustificare la deriva sentimentale), totalmente implausibili e costruiti all’interno di situazioni assolutamente artefatte, il che andrebbe benissimo se fossimo nell’area del puro romance, laddove da situazioni palesemente fantasiose si può trarre anche una morale, non nell’auto-fiction di deriva novel (dove cioè si vuole riflettere sul reale), perché qui si dimostra di non sapere nulla né della psiche umana, né delle relazioni interpersonali, né degli accidenti logistici (se stai seduto al bancone del pub patriarcale senza consumare per un solo intero pomeriggio, puoi anche essere simpatico al barista impietosito, ma pure Kate Moss finirebbe sbattuta fuori dagli altri membri stuf dello staff).

Il problema dei tre corpi, serie tv

“Siete insetti”. La scritta comparsa a lettere cubitali sul tabellone arrivi/partenze di alcune stazioni italiane. “You are bugs” la minaccia che incombe sul quinto episodio della pasticciata serie Netflix che come insegnavano le nonne, molto più sgamate dei bamboccioni di Ultima Generazione, foraggia la guerrilla marketing come questi perché sa bene che – a fronte dell’investimento, produttivo nel suo caso, culturale in quello degli sverniciatori per finta – il prodotto non si vende da sé. Pare infatti che gli alieni se ne abbiano a male nel sapere che dalle favole umane traspaia la natura mendace degli stessi. Peccato che se si dà per scontato che il lupo sia la metafora per l’uomo nero (non inteso come black occorre precisare oggi), lo stesso accada per gli insetti e quindi dare dell’insetto al genere umano non sia che la stessa bugia verso la quale nutrono una repulsione così grande dal passare dal tentativo di occupare la Terra servendosi dei terrestri all’annunciare di farlo non solo a prescindere da loro ma – per questioni di tempistiche interstellari sopravvalutando la puntualità dei Freccia Rossa che nemmeno in quattrocento anni saranno in grado di recuperare il ritardo accumulato (si limiteranno come sempre, bugiardi, ad annunciare l’arrivo in orario prendendo a parametro l’ingresso in città non lo stop sul binario di arrivo) – sterminandoli preventivamente per evitare inutili discussioni sul paradosso del mentitore, di fronte al quale – date le premesse: “Stiamo arrivando, non venite ad accoglierci. Sono un pacifista questi sono tutti stronzi”, dice più o meno il contatto invitando la scienziata cinese reietta e perciò San-ta lei per l’Occidente meno San-ti loro, gli alieni, nella rappresentazione storica delle dittature che sono sempre di un colore solo anche quando sono arcobaleno, a non rispondere – Ye dando per scontato che sia un alieno vero e non la voce di uno scherzo radiofonico non ci pensa due volte a concedere il suo appoggio, come di solito fanno coloro che trovandosi in minoranza in patria invece che seguire saggiamente il consiglio del Barone di Münchausen, e trarsi in salvo da sé tirandosi su per il codino, si affrettano a mettersi nelle mani del primo straniero che passa promettendogli la salvezza. L’antinomia che potremmo qui chiamare dell’alieno, col permesso di Eubulide, manca di coerenza logica e mostra tosto la sua fallacia: che se l’alieno alla radio è in contrasto con la sua stessa genìa non è poi credibile mostrare la razza degli alieni come un esercito invasore compatto sull’obiettivo. L’errore identico che fa la razza umana anche se la si taccia (ma sarà razzismo o un insulto?) d’essere insetto. O almeno quella parte che rappresenta se stessa come portatrice del pensiero che conta anche quando lo rappresenta come volontà popolare. Che la differenza sta tra popolo (il buon Hobbes preciserebbe che pure il sovrano assoluto è espressione della volontà del popolo) e moltitudine, la stessa differenza che ogni potere, nazionale o globale che sia, vorrebbe occultare alle masse negando l’eterogeneità della comunità stessa e ricorrendo allo stratagemma del nemico col solo fine di compattarla. Saremo pure insetti allora come ci avvisano gli alieni per bocca di Netflix, quindi affermando al contempo il vero e il falso, ma in parte siamo anche – nelle repubbliche che si pensano non totalitarie tra spettatori che non si credono merce – lucciole che stanno nelle tenebre. Certo, un sofone mi taccerebbe d’essere sofista.

Constellation, serie tv

Per rispondere alla fraintesa obiezione di Schrödinger sul famoso gatto, che nella vulgata – come in certe erronei darwinismi passati nella cultura generale come verità (ma se l’uomo non è ‘evoluzione da’ ma scimmia a tutti gli effetti nelle calcistiche dispute imitarne il verso è razzismo o insulto soprattutto se come di recente a Udine l’onda gravitazionale si muove da nero a nero?) – si trova a essere vivo e morto al contempo quando l’esperimento della scatola dimostrava invece l’assurdità dell’assunto, lo show come dicono i recensori laureati che non hanno letto Debord alla luce di Lacan (se tutto è spettacolo niente è spettacolo) mette in scena – districandosi tra fisica quantistica e Lewis Carroll, Giacomo Leopardi e Buzz Lightyear – quella “roba dell’altro mondo” che ad Alice nella favola famosa e qui a noi fa esclamare: “E pensare che fino a ieri le cose avevano un capo e una coda!”.

Una mamma astronauta, in seguito a un incidente, causa colluttazione con una precedente cosmonauta mummificata ma ancora orbitante attorno alla Terra, si trova così ad essere al contempo viva e morta in coabitazione col comandante che all’interno della scatola spaziale potrebbe a sua volta essere perito nell’incidente al posto suo. Una volta tornata a casa s’accorgerà d’essere, in compagnia di altri astronauti (per tutti la mummia orbitante e lo stesso comandante) viva sì ma in uno stato di sovrapposizione quantistica per il quale si ritrova a coabitare in uno spazio familiare con marito e figlia della se stessa perita nell’incidente. Ci vorrà Alice, disposta a chiudersi intrepida nella scatola-armadio-tana-del-Bianconiglio di una sperduta baita per stabilire un contatto tra le due bambine imprigionate nei problematici universi paralleli di chi è orfana e di chi deve relazionarsi con una madre non sua e che non la riconosce, dall’odore, come sua figlia perché si possa giungere – in un relativo happy end – a un’apparente conclusione.

Jo (o è Noomi Rapace che farebbe una gran coppia con lo Stregatto?) è infatti prigioniera del sistema al quale appartiene e perciò come il gatto per Schrödinger non può essere viva o morta al contempo perché la sovrapposizione non è del felino ma dell’intero sistema. Ragione per la quale i fisici teorici fanno fatica a penetrare nel senso comune e a minarne le basi e agli sceneggiatori non resta che buttarla sullo stress traumatico o sul soprannaturale. Solo a un osservatore esterno – un filosofo che non abbia necessità di riscontri reali, uno scrittore onnisciente e uno spettatore sgamato – può risultare evidente chi sia la Jo viva o la Jo morta, e sapere quale sia la verità nel mentre lo show gioca a mischiare le carte: Henry/Bud hanno uguale DNA, la Jo nello spazio mostra il suo volto di viva e morta e Alice – nell’infinito gioco tra vero e finzione – si sdoppia in due sorelle apparentemente uguali per far saltare il banco dei giurati. Ma quello stesso osservatore – per l’interpretazione a molti mondi – è a sua volta immerso nel sistema che osserva e quindi da subito nella condizione di tutti coloro che semplicemente non trovano ragioni pratiche a sapere d’essere – causa quotidiani sliding doors – “moltezza” in universi contigui (ma ben farebbero a coltivare moltitudini là dove sono) quando con candore si ammette pure che la verità è merce e per giunta rara.

Quel che appare infine è che noi tutti siamo vivi e morti allo stesso tempo, condannati fingendo di non saperlo a vivere come atomi circondati dai nostri se stessi morti che giorno dopo giorno ci ruotano attorno, qui e ora e forse per sempre. Verso l’infinito e oltre.

American Fiction di Cord Jefferson

Dunque, lo strombazzamento dei media attorno a quest’opera s’è fatto dilagante. Dico subito che il film non l’ho visto, forse lo vedrò, forse invece mai. Ma fedele all’impostazione di queste pagine, l’ho sicuramente (s)visto, cioè – lo chiarisco a beneficio di quelli che magari ancora cercano pure qui, tra queste righe, la recensione giornalistica finto colta e certo inoffensiva con tanto di riassuntino, stellette e zero spoiler perché ancora credono alla trama e ai giochetti degli sceneggiatori che hanno fatto la scuola giusta – ne ho letto, quindi, sempre per caso, e a sufficienza per evitare di parlare del film e proprio per questo per parlare del film, fedele al fatto che di letteratura qua si vuol trattare proprio scrivendo d’altro e che quindi ogni premessa è occasione per cianciare, sapendo press’a poco da dove si parte ma mai di certo dove si approda. Dunque, dicevo: grancassa di lodi da parte dei conformisti della penna alla messa in scena dell’autore nero che penalizzato dal fatto d’essere per niente l’autore nero che il mainstream bianco nella fiction apprezza – che nella realtà è altro paio di maniche e lo scrittore nero è proprio da cliché, black fuori e candido dentro – si impegna a diventare per avere il grano, necessario ai bisogni certo mai valore in sé, il nero che non è. Autore fake di fiction, perciò. Come il titolo in parte esplica già. Del film dicevo importa poco. Più interessante il meccanismo che lo produce a meno che non si voglia credere, ingenui, che la pellicola rappresenti davvero una critica al modus operandi dopo quello editoriale anche della fabbrica hollywoodiana, visto che come prassi al bestseller segue adattamento, anche quando hollywoodiana non è nello specifico e per metonimia di ogni, dal cioccolato a big pharma. Ma partiamo dall’inizio, che qui è palese il funzionamento standard del sistema culturale e non. Una certa industria afferma con forza determinati valori. Si crea una bolla, sospinta da più parti, che di quei valori si fa portavoce e che ostracizza ogni forma di dissenso. Immediatamente accorrono, annusato il vento giusto, le truppe deputate alla propaganda: sgamati pronti a tutto pur di avere il loro tornaconto e pusillanimi senza pensiero quindi disponibili, sempre per convenienza, a farsi paladini di quello altrui. Chi si prova non dico a contestare, non essendo più quei tempi, ma a esprimere un ragionevole disaccordo viene perculeggiato e offeso e pure penalizzato dagli algoritmi ben prima d’essere sfacciatamente azzerato da quella stupidaggine della cancel culture che invece di fare il suo compitino in silenzio, ignara, riporta sul palcoscenico della storia proprio coloro che vorrebbe obliare, e al massimo, se tiene anch’egli al conto in banca, ingaggiato per fare da contraltare nel dibattito che sempre si vuole esprimere come democratico nella poco invidiabile posizione dell’esperto fuori di testa, dell’intellettuale sotto farmaci, del bastian contrario d’ordinanza o dell’anziano che può permettersi di dire ciò che vuole avendo già più di un piede nella fossa. Pare proprio che la verità della finzione, superata brillantemente anche la prova della messa in discussione, sia lì pronta a rilucere come una pepita sul fondo melmoso delle traballanti opinioni. E guai a chi osa esprimere dubbi in merito, portare contributi o semplicemente usare la propria testa per ragionare con l’enorme cervello che ammassandosi si fa tautologicamente profeta di se stesso affermando la sua propria visione del mondo in attesa d’esser rimpiazzato da quello della AI che nutrendosi di nient’altro che dell’enorme Hive Mind che tutto omologa nella Rete non fa che computare in dieci secondi – rilanciandolo – quel pensierino assunto a universale. Fino a qui nulla di sorprendente, dato che da sempre l’industria culturale è di supporto al pensiero che si vuole unico fingendosi plurale, nel ruolo prediletto del megafono da propaganda ligio a indirizzare le masse fabbricando aziendalmente il consenso intorno a idee, libri, film… mentre in piena auto-fiction finge di rispondere alle esigenze di un canone espressivo. Quel che fa sorridere non facesse piangere è come all’improvviso coloro che woke non erano pur professandosi tali per quieto vivere (e quindi fino a ieri, solo per restare nello specifico del film in questione, groupie incondizionati del pensiero che confonde inclusività e omologazione, politically correct con i desiderata di una fazione intransigente, razzismo e maleducazione, diritti delle sottoculture con mere operazioni di minstrel show con neri veri ma più finti dei bianchi truccati da neri, lgbtq+ elevati a dottori dell’umanità per l’appartenenza di genere e non per la qualità del pensiero, donne contente d’essere selezionate in quota rosa come bambine in divisa all’asilo per interpretare il ruolo degli uomini in quota patriarcato, gioppini col microfono in mano che danno del fascista volendo parlare anche senza la poltrona dove il microfono l’hanno appuntato stretto al petto quasi fosse una medaglia al merito, scrittori di narrativa che credono di fare la storia della letteratura…) si risveglino dal letargo intellettuale durante il quale si limitavano a tacciare come radical chic chiunque la pensasse diversamente (ancora una volta nella fiction nella quale non s’accorgevano d’esserlo loro, radical chic, proprio in quanto seguaci di un pensiero fluido e assai alla moda) e posti di fronte alla retromarcia in salita dell’industria – che altro non persegue che il suo fine d’essere al contempo per mere ragioni commerciali originale, alternativa e universale pur vantandosi d’essere autentica, e quindi disposta a ingoiare di tutto situandosi il suo fine precipuo nel ruttino liberatorio col quale si afferma da sempre dalla parte giusta del mondo – candidamente si ritrovino, e tutti assieme, a sperticare di lodi – e senza ombra di vergogna va da sé – proprio ciò che fino a ieri avevano deriso stabilendo come vero ciò che ora definiscono fake, e adesso fiction ciò che è vero, lo stereotipo e l’integrato nel sistema, felicitandosi ovviamente dell’Oscar assegnato da quell’industria che ora gode perché un nero non abbastanza nero affermando che i neri non sono solo ghetto, droga e malavita come piacciono ai lettori bianchi certifica come sono i neri che da sempre piacciono alla gente che piace, neri e bianchi indifferentemente: con lo smoking e la statuetta in mano, fuori dalla fiction ma ben dentro alla fiction che conta, al contempo schiavi e vincitori.

Edit: s(visto) il film: il presupposto è preso paro paro dalla Macchia Umana di Roth, Ellis e Bukowski sono citati a sproposito, soprattutto Ellis e soprattutto Bukowski (lol), e in generale la rappresentazione del mondo letterario ma pure di quello cinematografico è da cliché, ma soprattutto (ancora) il film è solo una family comedy rispettosa delle identità di genere in modo vomitevole (il fratello che si scopre gay, my gosh!) e non fa nemmeno ridere, e soprattutto (ultimo) non è nulla di ciò sui cui è stato scritto, il che potrebbe essere l’unica cosa che depone a suo favore.

Povere creature di Yorgos Lanthimos

Perché è un film sbagliato, questo di Lanthimos. Andiamo per ordine. Innanzitutto è un film sbagliato per logica. C’entra niente sia o non sia una favola. Non è che perché è una favola, non debba camminare da solo ma muoversi a stento come la Bella post-operazione che impara a camminare. Benjamin Button è una favola ma è al contempo logicamente ineccepibile. Qui invece già la premessa è errata, a meno che non si voglia creare il mostro per vedere – tra il carlino-cedrone, la capra-papera e il porco-cane – da vicino l’effetto che fa, perché come può un cervello di un feto interagire col corpo di un’adulta essendo entrambi in due fasi differenti dello sviluppo? E soprassediamo sul fatto che non sia chiaro se il feto morto sia maschile o femminile (ma nel romanzo è detto sia femmina) e diamo pure per scontato che non vi sia differenza di genere tra i cervelli: dovremmo perciò inferire che è il corpo a determinare le differenze tra uomo e donna e tutto il resto in attesa di sapere se mente e cervello siano una cosa sola e quindi corpo oppure la mente sia un’entità che si distingue dal corpo-cervello pur non essendo ancora chiaro dove stia visto che neppure le neuroscienze sanno stabilire dove sia di casa? E se così è dove sta la trovata del film, visto che invece la tesi è che la presunta libertà della creatura donna-bambina sia inficiata dal contesto sociale e dall’educazione che limita al dunque la piena espressione delle inclinazioni naturali sue e di ogni donna? Semplicemente nel montare un cervello in fase embrionale di sviluppo in un corpo già formato fingendo di non sapere che mente e corpo non possono che essere in una relazione e che quindi quella che evolve sullo schermo fino a diventare la paladina dell’anticonformismo inteso male che sputa nel piatto, vacilla, si masturba a tavola, balla, scopa, in definitiva facendo ciò che più le aggrada, è sulla scena e non oscena tra adulti che la proteggono, la desiderano, la ammirano, la consigliano, la istruiscono, la scopano, la invidiano, la amano forse pure, quella alla quale in definitiva se non proprio tutto quasi tutto è concesso, è solo – come per tutte le creature – la risultante unica di una relazione mente-corpo e delle relazioni con il mondo che abita, siano prima la villa laboratorio del padre-padrone e poi il mondo che le è concesso di conoscere a partire da un viaggio in crociera per finire a essere la più bella del reame-bordello? Non è al dunque vedere come si comporta un bambino trapiantato in un adulto, che non è date le premesse esperimento che abbia valore scientifico anche ipotizzando che i cervelli siano tutti uguali alla partenza, perché pure il corpo che abitiamo – in quanto uomini o donne e tutto il resto – fa la differenza nel mondo che ci apprestiamo a sperimentare. La controprova pur essendo sotto gli occhi degli spettatori sfugge: è la ragazza che prende il posto di Bella nell’esperimento a non seguire uguale destino (il che azzera l’obiezione che Bella viva in condizioni privilegiate ma non che la bellezza non sia già disuguaglianza). È la scelta di Emma Stone in quanto corpo a condizionare non solo la fortuna di Bella ma pure l’attenzione che da spettatori siamo disposti a prestarle. È alla sua personalità che soggiaciamo, è a lei e solo a lei che concediamo il favore di condurci nella storia, non più nella favola perché Bella non può in alcun modo diventare archetipo. Interpretare l’interprete come fosse l’universale in grado di mostrare a tutte le donne la via del riscatto nel darla via in frenetici sobbalzi riedizioni di più trasgressivi dolci su e giù come punto di partenza per esperire il mondo è un abbaglio nel quale solo la logica woke può cadere perché il sesso non è mai un’intenzione pura ma sempre e ancora una relazione (qui pure con ridondante inserto lesbo inserito ad hoc) e perciò non può prescindere da quella simbiosi unica tra mente e corpo e mondo che al fine ci rende individui unici e perciò disuguali nello sviluppo della nostra interezza.

Includere le diversità perché tutti a prescindere da quelle si possa accedere alla stessa visione del mondo è una forzatura che non premia le differenze ma le azzera, condannandole non alla libertà ma all’omologazione. È la logica woke – che in questo film si sente rappresentata perché la mostruosità dell’esperimento a suo dire ci mostra quanto liberi saremmo se fossimo tutti fanciullini nei nostri corpi da adulti come se tutti avessimo il cervello e il corpo di Bella e in definitiva tutti fossimo in diritto di vivere al modo suo senza comprendere che Bella vive quell’esperienza proprio e soltanto in quanto Bella – è la logica woke che invece di esaltare le diversità includendole le azzera, che invece di inseguire livellate anemiche parità dovrebbe – ne fosse capace – aspirare a consolidare diversità capaci di esprimere visioni differenti del mondo. E anche fosse un esperimento, il fuori sincro a cui accennano gli scienziati non è una distanza destinata a colmarsi: esiste forse un’età in cui corpo e mente raggiungono pari sviluppo quando invece è chiaro a tutti in quel film neorealista che è la vita di ognuno che la prospettiva è esattamente ribaltata e tutti si invecchia nel corpo facendo i conti con desideri da bambini? E infatti la protagonista in scena è ferma a uno stadio della sua crescita mentre la mente la rincorre come Achille fa con la tartaruga. Ma soprattutto come si può affermare che l’evoluzione sia affare che riguarda solo la mente? La povera creatura è per ragioni di mero show (un freak nel baraccone) nella fase del perverso polimorfo ma è il suo corpo di adulta attraente che la rende cinematograficamente godibile (si metterebbe mai in scena un orribile bambino in questa fase o anche solo un’attrice meno fascinosa senza essere accusati d’essere non scienziati ma registi depravati o votati all’insuccesso?), mentre non è certo la sola crescita sessuale a fare di essa un adulto, né qualche libro leggiucchiato in crociera: Frankenstein almeno non diviene un intellettuale, né un individuo consapevole, e Pinocchio è libero finché rimane marionetta e lo è nel rifiuto dell’educazione (diviene bambino solo quando si conforma al ruolo che la società gli impone). Qui invece l’interesse che suscita la povera ma mica tanto creatura è determinato piuttosto dalla disuguaglianza naturale che incarna un cervello embrionale livellato sulla medietà e senza particolari talenti o intelligenza in un corpo eccezionale (siamo in piena pornografia: cosa meglio di una pin up con le voglie di una bambina?): Bella si chiama infatti non certo a sproposito e proprio perché tale in grado di provocare affetti e interesse nei confronti di quegli uomini che un’interpretazione di mal interpretato femminismo preferirebbe vedere come meri strumenti al servizio della sua liberazione, quando invece è palese che Bella acceda alla sua formazione fisica prima e filosofica e sociale poi solo in quanto oggetto (thing) dell’apprezzamento non solo maschile: è nell’essere oggetto di piacere che trova la sua maturazione. È libera? No, è solo bella e di questa bellezza si fa vantaggio. È dunque simbolo di emancipazione femminile contro l’oppressione patriarcale come da più parti si è interpretato? Direi proprio di no, anche senza scendere in considerazioni sull’esistenza o meno, sicuramente discutibile, di ciò che si definisce libero arbitrio, dando ingenuamente per scontato che noi e Bella si sia ciò che si vuole essere in un mondo che è lì solo in quanto rappresentazione (spettacolare quanto più digitale, steampunk, escheriana) purché noi si abbia la volontà di trarne vantaggio. Basterebbe vedere, e il film lo mostra, come Bella faccia uso del suo corpo dopo una prima scoperta onanistica del piacere per sfuggire alla gabbia dorata del suo creatore e come si rassegni dopo un primo sussulto di ribellione al ruolo che le è delegato nel bordello (all’obiezione che sarebbe meglio per uomo essere scelto dalla puttana che paga, segue immediato rientro nei ranghi, perché fuori dall’immaginario ridicolmente femminista non è il fatto di scegliere l’uomo che ti paga che ti rende padrone del tuo mezzo di produzione, è la logica della produzione che ti rende schiavo anche quando ne trai vantaggio nella competizione essendo la più bella del reame). Inneggiare al godimento in una società vittoriana poteva avere il suo valore storico ma il tempo del film è un trapassato futuro e leggere certe rivendicazioni oggi quando siamo in pieno imperativo categorico al godimento suona risibile. L’interesse di Bella verso i meno fortunati, altro tema. è poi davvero frutto di una presa di coscienza che sfocia in solidarietà? Anche qui la risposta è no, finché per carità si intende dare qualcosa che ci appartiene e non girare ai meno fortunati qualcosa che nemmeno è nostro, come dimostra la vacanziera Hanna Schygulla rinunciando alla sua lettura. È quindi al dunque Bella una donna eccezionale come tante donne sembrano ritenerla, addirittura un modello di emancipazione forse non considerando la tristezza delle loro esistenze che consideravano libere fino alla celebrazione hollywoodiana di un riscatto che riscatto non è nella rappresentazione di una donna più emancipata di loro? Non è nemmeno diventare medico (a un’ età che dovrebbe essere non la sua ma quella della Montalcini intesa come icona) che libera Bella in un mondo maschile che finalmente la accetta in quanto medico e non donna. Il fatto di fare al marito ciò che il padre-God ha fatto a lei non è essere rivoluzionari ma semplicemente accedere al modello di mondo (maschile, meritocratico, basato sui rapporti di potere…) per dominarlo ancora e sempre secondo le sue regole. È la dimostrazione di quanto al di là della retorica nemmeno essere fanciullini ci esime dall’essere imperfetti se quando la mente raggiunge un equilibrio con il corpo non ci accorgiamo che a essere rimasta indietro è l’anima. E anzi è la dimostrazione di come la saggezza non possa essere la semplice risultanza di una combinazione sperimentale: la libertà d’esser ciò che siamo è un’arma a doppio taglio, né coltivare fanciullini dentro di noi ci esime dal fare i conti con la crudeltà. Bella al dunque si dimostra anch’essa davvero una povera creatura, un mostro che ci consola d’esser mostri. Siamo tutti povere cose, mezzi uomini, ominicchi, quaquaraquà, con lo schwa, col badge he/she/they appuntato sul costume di scena… mezzi sceneggiatori di mezze esistenze che alla prova risolviamo il temino ricorrendo al trito escamotage di chi origlia dietro la porta per portare a casa la sufficienza, esperimenti falliti finché non riconosciuti dalla bella società se non come geni almeno come fenomeni da baraccone con una medaglia al collo. Addio Bella, ridateci Pippi Calzelunghe! “Perché la gente non passa il tempo a sollazzarsi?” sì chiede lei ingenua. Per la stessa ragione per la quale nell’unico momento educativo del film, con accento sadiano, Lanthimos fa dire all’esperta maîtresse che si gode anche della sofferenza. Perché la gente non passa il tempo al cinema?

The Crowded Room, serie tv

Sceneggiatori in cerca di personaggi e maschere di un disturbo dissociativo dell’identità. Quale distanza intercorre tra uno sceneggiatore di professione a caccia di soluzioni narrative e un malato di mente riconosciuto tale solo dopo che si è legiferata la malattia? Nella stanza affollata, il primo è assalito e confuso da personaggi che richiedono una voce, il secondo trova in quelle voci un modo per sopravvivere a se stesso. Lo sceneggiatore, portando alla luce parti di sé col benestare della finzione, è un potenziale criminale liberato dalle regole dell’artificio narrativo. Il malato, esibendo le diverse contrastanti personalità che lo abitano per sopravvivere nella realtà come fosse un suo script personale, salva se stesso dal compiere un crimine verso di sé. Al primo, come nella famosa porta di Duchamp, la messa in scena di parti del sé nella finzione narrativa apre la porta del subconscio solo per chiuderla sul comandamento sociale che impone un ruolo unico; al secondo il DSM nel mentre chiude le porte della galera apre quelle della segregazione, della cura obbligatoria, perché dalla frammentazione si ritorni all’Uno. E mentre il primo necessita quindi della pubblica legittimazione per essere ciò che ritiene d’essere, un uomo che contiene moltitudini e non un artista fallito, per il secondo il riconoscimento della società è la consegna dello stigma: al primo i premi, al secondo le terapie. Col medesimo risultato della conformità all’ordine richiesto: l’indulto è concesso solo se rientri nel Canone della normalità o ne dilati i limiti fino ad essere riassorbito in quanto eccezione, solo temporaneamente deviante. Lo sceneggiatore nel ruolo di semplice burattinaio di se stesso ora invitato sul precario palco concessogli dall’autorità a recitare a corte la parte dell’innocuo artistoide (consapevolmente fuso in venerato maestro), il malato allontanato dalla società fin quando non in grado di recitare la sola parte che è concessa ai sudditi, quella del cittadino che finge d’essere sano (fuso nelle sue 24 identità sotto la supervisione del Maestro). Che solo ai re è concessa in ultimo la pazzia.

Quale strada sceglie la fiction per rappresentare l’irrappresentabile? Quella che userebbe un criminale per sfuggire alla pena di morte, fingendosi pazzo, quella “ispirata da” non quella raccontata da un autentico folle incapace di recitare: “i pazzi siete voi!”. Se “Fargo” mette in esergo che quella che andrà in onda è “una storia vera” quando non lo è, “The Crowded Room” dichiara viceversa come falsa la storia autentica del non-fiction book sul probabile presunto criminale Billy Milligan. Prende dal Joker di Joaquin Phoenix la parrucca e la mette in testa a Peter Parker alias Tom Holland annacquando il drama originale del figliastro adottivo in un tentativo balordo di tentato parricidio e risolvendo il caso delle personalità multiple – con lucida follia – in un legal volto a salvare il protagonista Danny dalla prigione in cambio di un ospedale psichiatrico e offrendo a Tom, in veste di producer, la chance di dimostrare le sue doti attoriali, fingendosi pazzo come un pazzo reale si fingerebbe per non essere giudicato tale. Chi è malato non è colpevole ma sei malato solo se ti è riconosciuta la devianza, in mancanza della norma sanitaria al cospetto di un giudice si è considerati penalmente normali e quindi perseguibili dalla legge. L’allontanamento della follia a scopo terapeutico traveste così la domanda che inespressa rimane sottesa, il confine tra pazzia e normalità resta labile, il malato ricondotto al presunto desiderio d’essere uguale agli altri (sano tra chi recita d’esser tale), l’istanza urgente di cui si fa carico relegata ai margini della società che deve continuare a mettere in scena il suo anestetico show… le moltitudini di Whitman musicate dal premio Nobel Bob Dylan (“I live on the boulevard of crime / I contain multitudes”) rimandate ad ulteriori approfondimenti. Dichiararsi pazzo diviene l’escamotage dei criminali per non essere giudicati colpevoli, mentre al teatro di Mangiafuoco chi recita e balla senza fili è dichiarato pazzo e perciò levato di scena. Sul palcoscenico della Storia i pazzi criminali sono osannati dalla folla.

Il mondo dietro di te, Sam Esmail 

Niente fu più deleterio per l’architettura delle sceneggiature dell’avvento dei cellulari, costrette da quel dì a scornarsi con la reperibilità, laddove prima bastava smarrirsi su una montagna o nella pazza folla, avventurarsi per cantine o mettere in atto diabolici piani per consumare allegre nottate fedifraghe per portare a casa esili trame blockbuster. Sarà quello “il mondo dietro” dove non era necessario inventarsi smarrimenti patetici, mancanze improvvise di campo, cadute accidentali, disattese ricariche per portare a buon fine crimini e misfatti laddove un semplice trillo, neanche una videochiamata ormai alla portata tecnologica di una badante per anziani peraltro sgamati al punto di gestire chat e social con disinvoltura, manderebbe a ramengo tre quarti della cinematografia cosiddetta moderna? In questo pasticcio natalizio con ambizioni morali “dietro” il catastrofico intrattenimento prima e dopo pranzi o cene sicuramente più forieri di incubi digestivi l’escamotage più banale, un complesso blackout definitivo pure a livello satellitare perché proprio non si possa questionare sulla sospensione dell’imbecillità, diviene da foglia di fico per sceneggiatori in sciopero verso la loro stessa materia grigia il nucleo post-atomico del plot leggero anzi leggerissimo. Metti una famigliola bianca borghese di Brooklyn a caccia del week-end rilassante tra i boschi della vicina Long Island, dove seppellire le consuete stucchevoli problematiche disfunzionali che aleggiano nei soliti rapporti di coppia allargati alla prole, nella magione countryside versione extra luxury della residenza padronale in una piantagione (ma eco sostenibile perché sia evidente che si tratta di un punto di vista critico ai trend che diventano midcult autoaffermandosi come highbrow) di una corrispettiva famiglia black emancipatasi dalla schiavitù immobiliare con madre momentaneamente assente ma con padre aitante e più introdotto nell’élite del corrispettivo professore con moglie sia pur vittima di chicchissimo burnout al top nel problem solving relazionale di un’azienda pubblicitaria, meno nell’aristotelica gestione domestica e conducili per mano a dimostrare l’assunto che è chiaro a tutti, almeno a coloro che hanno nozioni di base di come funziona il mondo, quello al di qua almeno della complessità quantistica: se si interrompono le trasmissioni e ti trovi in un posto isolato sei socraticamente fottuto, sai che scoperta! Basterebbe allora affidarsi al manzoniano buon senso senza ambizioni di costruirvi un senso comune e godersi per il tempo che resta – dilatatosi oltre il contratto d’affitto – la villa sguazzando in piscina e quand’anche bussassero alla porta dei presunti padroni di casa sbattergliela in faccia come farebbero tutti al posto loro soprattutto non avendo questi, per la mancanza di cui sopra, modo di provare la loro identità. Qua invece per tener viva un’attenzione già morta prima che si spegnessero i satelliti, le petroliere arrivassero sul bagnasciuga senza incagliarsi prima, gli aerei si schiantassero ma i droni fossero abilitati alla distribuzione di volantini pubblicitari (e perché allora non un bel biplano sardonico con gli auguri di Happy New Year?), le Tesla si zombificassero in un modo sconosciuto pure a Musk, entrassero in scena – dopo l’Uomo Nero anzi Black terrificante la sera quasi quanto una camomilla Sogni d’Oro non essendo nemmeno in grado di turbare il sonno dei bianchi che riposano comunque al piano padronale – simbolici cervi e fenicotteri del realismo magico del Pigneto, radiazioni sonore portassero clienti odontoiatrici non ai dentisti ma ai membri complottisti di Qanon, tocca assistere all’ennesimo confronto/scontro sociale tra classi bianco e nere con la variante pauperista della colf sudamericana, nelle intenzioni per alzare allargandolo il livello dato per risolto il primo: un total black out ma con meno spessore di un episodio di “Blacked” quando la fidanzata degli americani, la Julia Roberts il cui fascino ormai è appeso agli Aviator, passa con la stessa rapidità di una scena porno dal vituperare l’intruso a ballarci assieme appassionatamente (siamo sempre in fascia protetta anche se esposti alla fine del mondo) e ovvio simmetricamente la teen si diverte a sedurre il professore meno sgamato di un membro di “FuckMyDaughter”, pronto a smentire l’assunto white guilt del razzismo inverso della giovane Ruth, siamo tutti uguali nella semplificazione di Netflix ma la parte giusta è una sola, per il quale dei bianchi non ci si può fidare.

La zillenial Rose vuole vedere come finisce la serie tv dei suoi amici preferiti? Ha ragione, almeno fino a quando la fiction è più interessante della vita, tolti gli inutili coetanei e le parti noiose in mezzo. Il mondo privo di senso, o a senso unico, è solo un’assurda complicazione da lasciarsi dietro. Ma che nello sfidare l’ignoto la salvezza venga da un bunker stile Guerra fredda e da un vhs pare un inutile rifugio nel si stava meglio una volta. Meglio sempre diffidare dei False friends.

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Lezioni di chimica serie tv

Si fa presto a dire chimica, quelle che sciorina con garbo e classe Elizabeth Zolt, la protagonista, una impeccabile Brie Larson che se il digital world odierno un tempo celluloide andasse come deve andare, in un laboratorio e non nel caotico agone delle relazioni umane, con quell’algido vitino, sarebbe stata perfetta per interpretare la figa di legno ante litteram Barbie al posto dell’esuberante manza austrialana, sono vere e proprie lezioni di vita, intendendosi qui non solo la meccanica celeste che sottende al nostro agire nel mondo ma proprio l’attitudine che sempre inseguiamo per fare di una miserrima esistenza, al di là degli accidenti particolari, un esempio prima che per gli altri proprio per noi stessi: con Hitchcock siamo sempre uomini e donne che vivono due volte, la prima naturale, l’altra alla ricerca costante di un significato che interpreti l’ideale al quale aspiriamo, al contempo scrittori, protagonisti, editor e lettori di noi stessi.

Catapultata per destino nell’America degli anni Cinquanta, la nostra infatti si troverebbe ad agire in un contesto che oggi, a posteriori, si definirebbe per conformismo dominato dal “patriarcato”, magica parolina con la quale i media mandano il cervello all’ammasso, se non in pappa visto che Elizabeth respinta dall’ambiente della ricerca si ritrova, sempre fedele a una certa idea si sé, a incespicare nelle circostanze impreviste dettate prima dall’amore, poi dall’essere madre single e infine eletta videostar di un programma di cucina per casalinghe d’antan dedite a sodddisfare le voglie culinarie dei mariti lavoratori, per se stesse quindi ma nell’ottica sempre di piacere a loro, prima molto prima che il Capitale scoprisse nella voglia di rivalsa femminile il giusto mezzo per sbarazzarsi degli uomini refrattari alle logiche patriarcali, sostituendoli in toto, perché consapevoli dell’inganno che la parola maschio nasconde: quello di mascherare i rapporti di potere che se ne fottono del genere, mirano solo a perpetuare l’eterno dominio di una classe sull’altra, e a implementare i margini di guadagno, soprattutto quando si ripercuotono sull’ignoranza coltivata in laboratorio delle masse, alle quali è dura far comprendere che la verità, come la penicillina, non è un’invenzione – come sottolinea Elizabeth all’interlocutore in errore con quel tanto di sprezzatura che oggi ti rinfaccerebbero come mancanza di umiltà nel brodo primordiale dove a ognuno è concesso di dire la sua soprattutto a sproposito perchè uno vale uno come nella sopravvalutata democrazia da esportazione – ma la scoperta di un qualcosa che era già presente solo in attesa d’essere svelato. Che per farla breve non è altro che la rivelazione di ciò che sottostà al nostro agire, quella misteriosa relazione tra ciò che siamo e il mondo che ci circonda, nient’altro che atomi laddove chimica e filosofia si danno la mano, partecipando insieme a una comune evoluzione in un progredire che avrà un senso solo a cose compiute. 

Alla domanda “Cosa c’entra tutto questo con la chimica?”, Elizabeth approdata infine – lungo il clinamen sul quale è scivolata nella sua particolare esistenza di lotta e di lutti – all’insegnamento può rispondere: “Tutto”. L’unica variabile costante in una reazione chimica è il cambiamento e l’accettazione dell’incertezza, ciò che apparentemente potrebbe significare una resa, alle circostanze e all’idea che abbiamo di noi stessi, conduce invece a una serena accettazione foriera di sviluppi inaspettati. Che si faccia il giochino di Dickens, ci si immerga nella frattura di Benjamin tra storia reale e simbolica, laddove gli eventi sono sempre ciò che “sarà stato” il loro significato, o si scopra come prolifico ciò che è esplicito nel pensiero di Hegel: non possiamo capire qualcosa se non dopo averlo vissuto. Mentre viviamo la verità ci è preclusa, per quanto come la penicillina sia sempre stata qui, per questo dobbiamo imparare a convivere con una certa dose di insicurezza e ad avere fiducia nelle nostre intuizioni: arriverà il momento in cui capiremo tutto ciò che c’era da capire, se era giusto o sbagliato, ogni evento troverà il posto che gli spetta, anche se questo significa vivere la vita di Willy il Coyote che continua a camminare “un passo dopo l’altro” anche quando ormai c’è solo il vuoto sotto di lui.

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La caduta della casa degli Usher serie tv

Una vita di agi e possibilità, al top si direbbe oggi, in cambio di una morte in età avanzata che porta come pena il fatto di assistere prima a quella di tutta la propria discendenza, nipoti inclusi, ai quali è comunque promessa come corollario placebo un’altrettanto lussuosa e lussuriosa esistenza anche se ovvio più limitata nel tempo. Questa l’offerta sul piatto alla coppia regina degli Usher, Roderick e Madeleine, qui reinventati con felice intuizione a calco della famiglia Sackler come proprietari della Fortunato, l’azienda farmaceutica che commercializza un potente antidolorifico, un oppiaceo al quale avrebbe fatto ricorso volentieri anche lo stesso Poe fosse stato così facilmente reperibile in un’epoca in cui sfuggire al dolore era considerato sintomo di scarsa virilità al contrario di oggi quando solo l’ipotesi di una vita “di ansie, tribolazioni e angosce” è sufficiente per preferire l’anestesia dei paradisi sia pure artificiali.

La scelta di R e M determina l’andamento della serie e il destino terribile degli eredi (non c’è antidolorifico che tenga) ai quali è stata sottratta la possibilità di scegliere per sé, il crimine più grande, non solo perché condannati in questo modo a vivere, senza averne coscienza, la vita dell’Altro ma anche perché essendo destinati a morte prematura certa costretti a vivere una vita sotto il giogo del Godimento, avendo il padre scambiato la panacea con la peggiore delle tirannie: odiose maschere al ballo senza chance di riscatto.

E quale sarebbe allora la pena per R e M, avendo commesso il crimine peggiore e cioè avere scelto per sé scegliendo per gli altri, facendo alla romana i froci col culo degli altri? Una settimana di dolore e funerali e poi la morte sarebbe stato sufficiente per Edgar Allan Poe, o ne avrebbe tratto conseguenze ben più horror della Gugino di Mike Flanagan, a cominciare dalla condanna a restar vivi consumati più dalla pena che dal delitto che comunque era già stato consumato per creare la fortuna?

Di sicuro non avrebbe accettato l’auto assoluzione finale del Ligodone quando M come una Wanna Marchi qualsiasi ribalta la responsabilità dell’abuso e della dipendenza sulle persone (“these people…”) che vogliono mangiare con 5 dollari in 5 minuti (e non soffrire per 5 minuti) perché these people, queste persone che desiderano case auto e vestiti (e i prodotti culturali, ma chérie) sono le stesse che credono di aver scelto di vedere Poe un’ora per otto puntate su Netflix anche quando gli si imputa di avere creato con il loro desiderio la Fortunato. Il desiderio è desiderio dell’Altro. Le uniche meritevoli di pietà, pure sfortunate nel loro inerte edonismo.

Invece che ritrovarseli truccati da Halloween (o sono riesumati al Tale e Quale Show?) in attesa del suo trapasso, Roderick avrebbe dovuto allora averceli tutti e di nuovo seduti davanti a un qualche pranzo augurale (se averli sopportati per anni non fosse già stato aver scontato abbastanza la pena d’esser diventato billionario). Così come pena sufficiente è la nostra a durare otto puntate pensando a quanto si rivolta nella tomba il Vecchio Edgar nel mentre rimugina su quanto frainteso sia oggi, per ragioni commerciali, il senso dell’orrore, tra effettacci digitali e telefonati jumpscare, o quanto infine sia penoso veder sfilare in fila per due e con le bandierine gli sceneggiatori in lotta con le Major come non fosse già abbastanza orribile – dico per loro – prestare le menti migliori della loro generazione a seguire le linee editoriali delle piattaforme, quando l’unica rivendicazione con un senso sarebbe quella di farne, non visti, trampolino, non quella di trattare condizioni migliori per restare murati da vivi nella Casa già crollata degli Usher, intesi alla lettera come le maschere che un tempo si premuravano di accompagnare nel buio gli spettatori.

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