Archivi categoria: Uncategorized

La profezia dell’armadillo di Emanuele Scaringi

Mortacci tua! Si diverte solo Panatta.

LA FORMA DELL’ACQUA di Guillermo Del Toro. Con Sally Hawkins, Michael Shannon (II), Richard Jenkins, Doug Jones, Michael Stuhlbarg. Titolo originale: The Shape of Water. USA, 2017,

Ennesimo Mostro non mostro alle prese con i sogni erotici di una Bruttina Stagionata (con l’handicap d’essere muta al cinema perché nella vita reale sarebbe solo un vantaggio, come nella più scontata freddura nei classici politically uncorrect che in tempi di buonismo – i neologismi pro categorie protette abbondano più che per i normodotati abbandonati alla sfiga perenne, per gli omosessuali al discrimine o per i neri alla macchietta – suonerebbe almeno come sberleffo neorealista contro l’immaginifico consolatorio che esiste solo nella celluloide e al buio di camere oscure: ma sarà solo il giochino scontato del regista di genere che si vuole degeneralizzare mentre autorializzandosi suggerendo  metafore sul cinema prima dell’avvento del sonoro in questo minestrone che non è né fantasy né horror si candida all’Oscar generalizzando e dando forma all’acqua calda?): non trovando uno straccio di uomo, nemmeno in pantofole già montato sulla poltrona, parlante ma a monosillabi, invece di provare almeno a rendere meraviglioso l’obbrobrio della vita, sua e di tutti, o a sedurre il cattivone, si invaghisce dell’aitante sgorbio col cuore d’oro come una gattara qualsiasi che ascolta Samuele Bersani. Sopra l’ennesima sala cinematografica che consola invece che spalancare gli occhi sugli orrori della storia, pure la morale è sbagliata: non “fingi di non sapere niente”, ma “fingi di non sapere già tutto”.

.

CHIAMAMI COL TUO NOME Regia di Luca Guadagnino. Con Armie Hammer, Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel. Titolo originale: Call me by your name. Italia, Francia, USA, Brasile, 2017

Il rincoglionimento senile di Ivory e il cipiglio autoriale di Guadagnino. Sempre la vecchia borghesia che si masturba credendo d’esser colta e di sinistra (e si lascia sedurre dall’Impero). E pure le poltrone sfondate sono fotografate come in AD. Ma lo strazio è nei personaggi secondari e nell’analisi del craxismo. Volano albicocche e pesche come al Circo Pomofiore.

ELLA & JOHN – THE LEISURE SEEKER Regia di Paolo Virzì. Con Helen Mirren, Donald Sutherland, Christian McKay, Janel Moloney, Dana Ivey, Dick Gregory. Italia, Francia, 2017

Le malattie disperanti al tempo di Virzì. Trovare il lato comico (e tenero) fa soltanto impazzire di rabbia. Uno schermo nero s’avvicina di più alla verità. Presa per il culo (dei malati) a beneficio di chi le ha scampate (le malattie).

BENEDETTA FOLLIA Regia di Carlo Verdone. Un film con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Maria Pia Calzone, Lucrezia Lante Della Rovere, Paola Minaccioni. Italia, 2018

Carlo Verdone che cita, scimmiescamente, Il Grande Lebowsky. Brutta roba invecchiare (e non avere più il tocco).

A BEAUTIFUL DAY regia di Lynne Ramsay, con Joaquin Phoenix, Ekaterina Samsonov, Alessandro Nivola, Alex Manette, John Doman. Cast completo Titolo originale: You Were Never Really Here. Genere Drammatico – USA, Francia, 2017, durata 95 minuti.

Un bolso Joaquin Phoenix, con barba alla Jon Voight di Tornando a casa e l’abilità di Rambo nel taglia&cuci, in un film che già nella locandina cita i suoi debiti (Taxi driver, Leon, Drive ma mancano almeno Old boy e Il giustiziere della notte per non essere accusato di Copia&Incolla), agisce da sicario, armato di martelletto per salvare una bambina perduta nel solito giro di prostituzione minorile stavolta altolocato nella politica iuessei. La deframmentazione psicoanalitica va di pari passo col montaggio tra ricordi fleshbeccati, babbi sadici, voglie di suicidio, spruzzi di sangue e crimini di guerra nello sgranarsi e ricompattarsi temporale del racconto. Erotismo delux della carneficina, se la mattanza è sempre fuori inquadratura e quando si palesa concede il dubbio dell’onirico. Ma l’eroe cattivo ha il cuore d’oro, dietro lo sguardo maniacale dello stordito: care giver della mamma anziana, porta in braccio le bimbe e dà la manina ai dead man quando tirano le cuoia. Lo stesso sguardo nostro ai titoli di coda.

Mia madre Un film di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini. Drammatico, durata 106 min. – Italia, Francia, Germania 2015.

Di quale film dobbiamo parlare? Del solito Moretti in transito, forse, è probabile, che porta a casa la pagnotta e i petti di pollo alla madre malata in ospedale risolvendo l’impasse creativo biennale come facevamo noi ragazzini al ginnasio quando il tempo stava per scadere e il foglio ci guardava cupo e bianco, dell’escamotage quindi col quale passavamo mica per furbi, che lo eravamo, e in segreto assai molto più consapevoli di quel che davamo a vedere quando ci coprivano comunque di elogi per non averlo svolto il tema, ma addirittura in tempi, quelli là, di facile decostruzionismo, di confusione tra soggetto e complemento (perché ce l’hanno insegnato il dativo di possesso ma l’abbiamo tutti dimenticato) ma così carica di reconditi significati a venire, pure per intelligenti perché capaci d’essere al contempo autori e spettatori, e autocritici fino al masochismo, e perciò anche pure ironici e sagaci, superpartes, rispettosi dell’essere e dell’avere senza fare confusione: il tema sul tema (il metatema), che bravi eravamo, perché alla fine parlavamo di noi, di quanto era difficile essere originali, affrontare la complessità, avere un pensiero e, millenni dopo i classici, adoperavamo la logica per interpretare quell’angoletto di mondo che poi era Milano era la scuola o il cortile di casa, erano le relazioni familiari, anche parlando di altri o d’altro, sfiorandolo il tema, glorificando leggerezze e distanze, assumendo la visuale del nostro occhio miope come fosse, e lo era, lo sarebbe ancora, il punto di vista di un dio per quanto minore.

Qual è il film di questo “Mia madre”, che è il temino svolto per ordine della maestra (cioè della madre di Moretti), e perciò non può che risolversi come farebbe ogni bambino alle elementari (mia mamma è brava e bella e mi insegna come si sta al mondo e tutti le vogliono bene) che fa sorridere la mamma per prima, perché lei si specchia ed è contenta di non vedersi? Non è l’andare fuori tema, quel girovagare a vuoto della Buy (ancora la Buy che fa la Buy!) che diventa il girovagare a vuoto sul motorino della figlia, l’unico insegnamento che sappiamo trasmettere dopo avere girovagato noi a vuoto senza essere stati capaci di capire nulla, nemmeno quando pensavamo d’averci capito qualcosa, senza avere il coraggio di farci da parte, che non ci sono più nemmeno volanti fake da guidare, come quel padre che assiste premuroso e traccheggia e non si leva mai dal cazzo (ma da quanto le figlie non imparano ad andare in motorino dai genitori?), che poi è Moretti stesso, che tutti in questo film risolutivo che è il film della morte di Nannimoretti infatti sono Moretti, che tutti ne hanno incistato i caratteri, i tic, le nevrosi (al culmine pure l’ex della regista che in questo abuso di realtà vs finzione non può che essere un attore), un’enorme matrice che mentre si fa da parte (e si nota di più proprio perché come il Michele di Ecce Bombo se ne sta in disparte) si centuplica e tutto fagocita (pure lo stereotipato attore americano che vorrebbe lui fagocitare il film – Turturro facce Tarzan! ­–  e ne viene sbranato) e tutti dicono la battuta di Moretti, quella che ci si aspetta da Moretti, quella che vorremmo da Moretti e non possiamo più chiedergli, se lui ha fatto un passo indietro, se assiste fingendosi il signore di sessant’anni che è (quello che voleva essere Kubrick, o al limite Wenders,  e non lo sarà mai, nemmeno per interposta persona), quell’insistito “accanto al personaggio” ribadito troppe volte (non siamo scemi, anche se era meglio a sto punto morire da piccolo), che è sempre stata la cifra stilistica dei suoi film, l’unica cosa per la quale gli abbiamo voluto bene, quando ancora era lo stronzo che ci provava a interpretare quel mondo che intanto mandava i cervelli all’ammasso (come perdonargli ora la mancanza di arroganza che gli perdonavamo prima, il circo pseudo intellettuale ma integratissimo dove conta che lo circonda, la comparsata, la resa all’elogio funebre?) .

Non è il rimasticare ancora l’ennesimo film sbagliato, portando petti di pollo al cinema italiano che da anni mangia solo petti di pollo, con la solfa del cinema nel cinema (“Il caimano”), la fuga della mamma dall’ospedale (“Habemus Papam”), l’ennesimo abitacolo dell’ennesima automobile (da “Palombella rossa” in poi) con l’ennesima canzoncina di repertorio cantata in gruppo, l’elaborazione degli affetti intimi (“La stanza del figlio”), il balletto estemporaneo (“Caro diario”), Leonard Cohen nella colonna sonora, tutte quelle finte case borghesi che stanno solo nella testa degli scenografi borghesi, lo psicoanalismo onirico, l’invettiva sterilizzata contro la retorica del linguaggio (e degli slogan)… è il film dentro al film che deprime, che lascia noi attoniti più del suo cast di abili sceneggiatori, ormai adusi a confezionare premi Strega senza odore di falò, e pure infelici perché oggi non viene la donna delle pulizie a rimuovere la cenere, prima della sua resa che abile vorrebbe Moretti, ammettendola, portare in primo piano, come una captatio benevolentiae (“Ma io ho già deciso” dice al responsabile del personale che vorrebbe prolungarne l’agonia), è quel non capire nulla di operai e imprenditori, di manifestazioni per il lavoro (e non contro, sigh!), di celerini schierati, di dubbi pasoliniani, di confronti in fabbrica, è quel film – che è il film che avrebbe dovuto essere e non è stato (per fortuna!) – che lascia sgomenti, e incazzati, come guardare una madre che faceva chilometri, e noi dietro col fiato corto, sicuri che ci sarebbe arrivata là, e ora non riesce ad arrivare nemmeno, almeno, fino a qui.

Nymph()maniac – Volume 2 Un film di Lars von Trier. Con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Willem Dafoe, Mia Goth.Titolo originale Nymph()maniac – Volume II. Drammatico, durata 123 min. – Danimarca 2014

Morale: la regola dell’amico non sbaglia mai /se sei amico di una donna /non ci combinerai mai niente. Più che studiare l’opera omnia di Martin E. P. Seligman era meglio sopportare quattro minuti di Max Pezzali.

 

Millennium – Uomini che odiano le donne Un film di David Fincher. Con Daniel Craig, Rooney Mara, Christopher Plummer, Stellan Skarsgård, Steven Berkoff. Titolo originale The Girl with the Dragon Tattoo. Drammatico, durata 160 min. – USA 2011.

Perché lo strombazzatissimo thriller scandinavo non funziona, e al cine mostra tutti i suoi difetti? Perché i gialli al dunque devono essere perfetti su carta e nella vita sono perfetti solo i delitti. Lo script mainstream impone la necessità di funzionare dal punto di vista logico, soddisfare vane pretese di razionalità, e mandare tutti a casa felici e contenti d’essere al dunque fortunati bravi bambini, anche se non proprio capaci di “gestire la quotidianità”, al punto però di sacrificare le ragioni di ogni comune buon senso. Quale persona dotata di sindacale senso di autoconservazione infatti seguirebbe un presunto assassino che lo invita dentro casa? E chi, punk fuori di testa finché si vuole, monterebbe una moto senza casco in una rigida notte invernale per l’inseguimento finale? Se poi gli assassini non fossero tutti inguaribili logorroici egocentrici sai quanti presunti detective ci lascerebbero le penne sul più bello invece d’essere ogni volta salvati per il rotto della cuffia! E non accampare please la solita scusa che usano gli sceneggiatori falliti per portare a casa la pagnotta: che il cine è finzione e impone la sospensione della incredulità. La verità piuttosto è sempre fuori dell’inquadratura.