Archivio mensile:Maggio 2020

L’ufficiale e la spia (J’accuse) di Roman Polański

Tutti i fatti e i personaggi descritti in questo film sono reali. È scritto in esergo, bello grande all’inizio del film. E quindi? Gli avvenimenti narrati sono indiscutibili e le persone esattamente com’erano? Quel che accadrà sarà la storia, senza interpretazioni e manipolazioni? Così come andò? Davvero? Ma allora perché, tra i tanti quesiti, si parla di personaggi? Non furono allora uomini e donne? E gli attori chi interpretano: i personaggi del film di Polański o quelli del libro di Robert Harris da cui il film è ispirato? E allora qua si fa la storia, e quindi la stessa non è reale affatto, o se ne dà piuttosto, e come sempre sullo schermo, dalla caverna al cinema, la propria versione? Così se Dreyfus urla la sua innocenza inneggiando alla Francia (ma cos’è una nazione privata dei suoi valori e financo dell’esercito che li difende?), e la medesima Francia lo manda al Diavolo, virato seppia, altrove si banchetta sull’erba, tableau vivant alla Manet senza la nuda verità​ della giunonica moglie del regista che ci sarebbe stata invece a pennello, come una Parietti almeno in un’inquadratura dal drone dei Manetti Brothers.

L’antisemitismo è già​ diffuso ma non se ne dà ragione (forse perché a precisare che ad avercela con gli ebrei è pure Bertillon si rischierebbe l’accusa di complotto) e il nuovo capo dei servizi segreti, altrimenti detto di statistica (che ironia ai tempi del Covid quando i  potenti spiegano alle masse le presunte pandemie con curve e indici di contagio!), pur di parte, si professa immune da ogni influenza. Si troverà a fare un corso accelerato di spionaggio, tra il secco e il vapore, e la classica ventosa al muro, fingendosi stupito di quanto sia labile la parete tra il privato e la vita degli altri, molto prima che si affidassero i propri data, e gran parte delle proprie inutili esistenze, alle Cinque ingorde Sorelle invece che alla domestica infingarda che fruga nei cestini: perché tanto dispendio di forze in campo – apri la busta, chiudi la busta – quando pure per accedere alla corrispondenza del capo dei Servizi basta entrare nel suo appartamento come un ladro qualsiasi? La lettera galeotta non sarà volée ma incerottata è però sempre stata appesa al muro, ricomposta peggio di certi collage con i ritagli dei giornali come si facevano da ragazzini nei carbonari anni settanta: è un borderau contenente segreti militari nemmeno un borderò con cifre a sei zeri, che tempi signora mia! Se ne accorgerà l’integerrimo Piquard, antisemita ma con la barra dritta e l’amante nel letto, nel profluvio di baffi finti, pagliette, cilindri, ventagli, velette, carrozze e cavalli, mancano solo i giornali con i buchi, e improvvisate prostitute che recitano da spia facendo non precisati giochini con le Quattro Dita. Dujardin si rammenterà d’esser stato Hubert Bonisseur de La Bath e dopo due passi di can can e una svolta gay, la sceneggiatura prenderà un abbrivio meno serioso verso un epilogo da comica finale con sonatine da pianista, melò, duelli celentaneschi e repentine fughe tra gli arbusti, preceduto da foto dagli abbaini senza zoom, analisi grafologiche, lenti d’ingrandimento, ufficiali senza cuore con segreti che nemmeno il loro chepì deve sapere e l’inevitabile legal thriller mentre Piquard viene allontanato ma la prende con suprema nonchalance: “Mi dedicherò alla lettura” annuncia serafico preparando il viaggio verso le sue prigioni. 

Zola farà nomi e cognomi e così invece d’essere ritrovato cadavere come Pasolini o irriso ai nostri giorni come Agamben sarà preso talmente sul serio da essere costretto alla fuga, ma la verità è in marcia, e il secolo della cianfrusaglia pensa di volgere al termine. Sarà invece fulgido esempio per gli estensori delle fake news. Non ci sono più nemmeno i personaggi, chiosava l’inviato del Corriere. Ma se l’Apollo del Louvre è la copia romana dell’originale perduto, e perciò non è un falso, di chi era copia l’Apollo? Saranno veramente reali i personaggi? Chi ha scritto la storia? O la sceneggiatura a tema nasconde altre privatissime vicende?

Sorry We Missed You di Ken Loach

Nel mondo horror secondo Ken Loach, se rinunci a un’auto col parcheggio sicuro davanti alla porta di casa la catabasi ti attende in cima alle scale dell’appartamento dove vive apparentemente tranquilla la tua famigliola. In tempi precari, avere la balzana idea dopo aver fatto due figli di lavorare con lo scopo di un’avanzata sociale (ma quale?) nel ceto dei proprietari di casa è errore fatale, e da presunto povero se almeno hai il pane puoi anche finire miserabile senza le rose comunque e trafitto dalle spine. Così, l’incauto Ricky invece di godersi una serena mezz’età da bamboccione con la maglietta rossa dello United e i tatuaggini da filibustiere, magari occupandosi dei figli, dal divano, si farà tentare dall’avventura del padroncino di furgone, in franchising ma in sostanza dipendente senza tutele dall’azienda di consegne pacchi dove tutti competono con tutti tranne che con l’invincibile padrone, l’onnipresente Maloney mai oppresso, lui, da un benché minimo impedimento della vita privata, una gomma tranciata una finestra presa a bottigliate una diarrea improvvisa e duratura, che in qualche modo anche una divinità palestrata dovrà pure avere. Ricky obbligherà la remissiva moglie a disfarsi dell’auto e comincerà a stringere da sé il cappio al suo collo con le rate del Volkswagen nuovo, scapicollandosi in giro per le tangenziali sotto il controllo della scatoletta nera che tutto regola e tutto sa raddoppiando il numero delle otto ore di lavoro per sé e pure per la moglie, costretta ora a inseguire vecchietti non autosufficienti su e giù dagli autobus, sottomessa a una sua legge di coscienza che mai nessuno premierà con bonus stakanovisti, ritrovandosi a pascolare a vuoto nelle ore di intervallo tra un turno e l’altro, che mai nessuno considererà tempo di lavoro; porterà con sé la figlia ben più che minorenne come se consegnar pacchi fosse un gioco da bambini (con la consolazione di qualche spicciolo che le generose casalinghe di Newcastle ferme agli anni sessanta le riserveranno per le caramelle, forse intendendo con quel sorrisetto qualche pastiglia colorata all’emmediemmea); darà una svolta alle ansie adolescenziali del figlio maggiore preoccupato che le sue aspirazioni di graffittaro fuori tempo massimo finiscano frustrate nel mondo degli adulti falliti che gli prospettano un futuro da lavatore di piatti mentre la sua gioventù ribelle si esaurisce nel perculeggiare qualche pulotto tonto, vendendosi il giubbotto di gore-tex (qualunque cosa sia) per comprarsi le bombolette da 5 sterline a spruzzo quando non provando, facendosi pure beccare, a rubacchiarle nel mall multinazionalcapitalista perché ha elevato il bottegaio, nel suo confuso universo alla Saviano con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, se non a compagno almeno a merce egli stesso in estinzione. Pure il saggio consiglio del collega esperto di portarsi dietro una bottiglia (finiti ormai i tempi delle calibro 38 fumanti, per chi non trova come arma di contrattazione altro che la remissione su tutta la linea, nessuna solidarietà tra nuovi schiavi e al massimo la comprensione del buono di turno che al massimo potrebbe offrirsi non come sodale ma come rimpiazzo), mentre la situazione precipita perché a ogni bega familiare – in un mondo che non ci vuole più ma ci tollera soltanto come monadi sole e dedite esclusivamente al tempo del lavoro – il gonfio padrone dei padroncini stacca multe salate e cartellini gialli, si ritorcerà contro il malcapitato Ricky che incapace pure di organizzare almeno la ripicca di un esproprio proletario di telefonini si vedrà derubato e pestato da una gang di bulletti l’unica volta che infilerà l’uccello dentro la bottiglia e infine, quando come da manuale la bottiglia sparerà, ricoperto della sua stessa minzione. 

Lo spettatore, compreso perché non ci sia spazio per il lavoro femminile in questo microcosmo –  o alle donne consegnano un secchio con il tappo? -, assisterà al finale aperto e senza happy end. Ricky, impossibilitato a far valere quelle che un secolo fa si chiamavano rivendicazioni (ma pure sacrosante ragioni), mezzo orbo, tradito pure dalla figlioletta giudiziosa che gli nasconde stupidamente le chiavi del furgone nel peluche, invece d’essere inseguito col mattarello come Andy Capp dalla moglie e ricondotto al pub con la paghetta fuggirà la mattina non per unirsi al perfido kapò nella riedizione criptogay à la Zalone del rapporto schiavo-padrone, ma proprio verso le sue stesse catene presupponendo illuso d’essere padrone del suo destino di potersi ancora salvare. Avesse letto Beckett, avrebbe almeno la soddisfazione di sapere che prima o poi Malone(y) muore.