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Ripley, serie tv

Il Ripley senza talento non è titolo casuale, ripensando alla versione cinematografica col bellimbusto Matt Damon, di cui mai si è capito quale fossero i talenti, sempre che i medioman non abbiano proprio nella mediocrità, fisica e intellettuale, la loro forza: il segreto ingrediente che ne fa nella loro implausibilità il perfetto agente, più segreto al dunque Jason Bourne di James Bond. Questo di Andrew Scott è un Ripley talmente sinistro e in bianco e nero – come la fotografia che fa da filtro per la svenevolezza dei più che non s’accorgono del vacuo manierismo laddove si fa esercizio di bravura nel ridurre all’osso di seppia la costiera amalfitana – che dimentica proprio ciò che è essenziale del Ripley della Highsmith, il saper cioè accattivarsi con falsa benevolenza la simpatia e con questa la fiducia della coppia di scoppiati americani (nemesi del teorema Monti-Fornero sui choosy bamboccioni) in vacanza perenne con ingiustificate ambizioni artistiche e peggio esistenziali (i soldi non fanno la felicità solo di chi non sa viversela bene senza i soldi). Talmente urticante questo Ripley che nessuno lo inviterebbe nemmeno a un aperitivo in terrazza senza prima aver nascosto i coltelli della cucina, tantomeno gli concederebbe la funzione di lampadario per accendere passioni fulminate. Per rendere giustificabile il fatto che possano essere così docilmente abbindolati da un Ripley senza talento non resta che abbassare il livello dei comprimari alla sua ag-ghiacciante monocromaticità: così Dickie e Marge si trasformano dalla coppia perfettina Law-Paltrow nell’insipido cocktail Flynn-Fanning al quale aggiungere ulteriore ghiaccio diluisce ulteriormente il mix e che a un Ripley talentato produrrebbe immediata repulsione: partita troppo facile per un giocatore di talento. Alla fine, l’unico Mr Ripley con talento è colui che appare sullo sfondo a caricare la serie di un autentico enigmatico fascino: quel Caravaggio evocato nella doppiezza del Davide con la testa di Golia che fa della complessità la sua forza espressiva. Genio della luce che dove rivela nasconde, e viceversa, senza tema alcuno di confrontarsi col colore.

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