Archivio mensile:dicembre 2020

Your Honor serie tv

Bryan Cranston è morto. Viva Bryan Cranston. Se Walter White muore, e non può essere altrimenti, alla fine di Breaking Bad, troppo in là si erano spinte le premesse e l’Ordine andava ricostituito (non siamo a Hollywood ma il New Mexico è selvaggio quanto una qualsiasi periferia del Mondo Occidentale, l’opaco negativo di un presunto positivo che produce borderline soltanto copie sbiadite per mancanza di mezzi e libertà vigilata, ma quale underground e controcultura? solo concime per vecchi animali), che va bene abbracciare deliberatamente il Male sia pur con la scusa del tumore e la paura di lasciare la famigliola senza un cazzo non da mangiare (che un viale Tibaldi ci sarà di sicuro anche ad Albuquerque), ma almeno nella disponibilità di partecipare dignitosamente al gran ballo del consumismo (certo un’esplosione a Zabriskie Point ancora se la sognano gli showrunner della California!), ma il Uolter s’era spinto un po’ troppo in là, prendendoci più che gusto, anzi rivelando a se stesso che anche se di cognome faceva White l’anima era piuttosto Nera, e non meno compiaciuta, e il carisma di Heisenberg rischiava di traviare frotte di ragazzini brufolosi, nati appiccati al debito, indotti a salvare il pianeta per non rompere il cazzo a casa, sardine con la faccia da tonni, e in cuor loro già convinti che se vuoi essere non la miglior puttana, che lì almeno qualche dote in dote la devi possedere, o in rari casi pure la passione, ma il più nababbo del bordello l’unica via più che una laurea in chimica è lo spaccio di sostanza che della forma ormai si abusa sia tra i rampolli della high society sia tra gli chef stellati sia tra gli startuppari multimilionari con terrazza, gli unici modelli di successo (meglio se con tatuaggino samoano e purse tye-dye da tribù che balla con pupo a carico nei supermercati affittati nei nuovi quartieri della gentrificazione italiota: gli zombie non solo a battere sui maniglioni antipanico come in un film di Romero ma perculati e contenti sui social network mentre fabbricano like e cuoricini nel tempo che da schiavi è sempre o libero o uno straordinario non retribuito) se non si ha nemmeno uno straccio di corda vocale alla quale impiccarsi per competere nel nome della sacra trinità (soldi, auto e puttane) con la pletora di rapper ormai più numerosi dei broker ai quali qualcuno dovrà pur consegnare in ecologica bici oltre al menu delivery natalizio pure un qualche trip in serie da pippare poi facendo beneficenza sgasando in fuoriserie.

Te la spassi, ma fai una brutta fine, la morale, dal Paese dei Balocchi fino a Gomorra, per contenere l’ansia girardiana da emulazione. Mentre i magistrati fanno il tour delle sette scuole per spiegare che la Legge non va rispettata per bontà di cuore, né per tema della pena, né per senso di comunità – non ci credono più nemmeno loro, tanto da sempre non solo ciò che non è espressamente proibito è implicitamente consentito, ma ciò che è severamente vietato è per ciò stesso massimamente desiderato e, si sa, produce ricchezza anche se non rientra nel Pil – ma perché non è redditizio delinquere: troppe le controindicazioni e troppo bassa la percentuale di successo, argomentano da pifferi ai topolini da laboratorio, a maggior ragione se rapportata a quella di far la brutta fine dopo anni di manovalanza, se proprio si è spericolati, la deduzione, molto meglio mettersi in coda ai concorsi per l’abilitazione a diventar avvocati e poi galoppini in attesa d’essere promossi servitori dello Stato. Giudici, come l’apparente integerrimo Micheal Desiato, il nostro Cranston redivivo che dopo aver vagheggiato l’occasione della vita s’è ritrovato a far da ventriloquo al suo pupazzo di successo dopo aver cullato l’illusione di divenire nicianamente se stesso e non mikebongiornianamente ciò che il pubblico si aspetta tu sia: e qui non può quindi che eternamente tornare con gli stessi tic, ammicchi e mossette, e financo coinvolto in altri simili dilemmi. Manterrà la retta via, arbitro in terra del bene e del male, o finirà in un nano secondo coinvolto in un’altra sarabanda, sulle strade di una New Orleans, che non è quella jazzy and steezy di Treme (capolavoro!), dove il diritto si incrocia con gli affari di famiglie malavitose e delinquere è umano troppo umano soprattutto se sei di colore? Il drama funziona al solito per errori consenzienti di sceneggiatura (è lo showtime, bellezza, e se non ti accorgi di avere un pezzo di moto incastrato sotto la macchina e il cane nasconde sotto il letto lo straccio insanguinato, vabbé, ma perché mai spifferare il furto d’auto all’investigatrice privata?) così come ogni horror non sta in piedi senza inciampare in azioni che nessuno, tranne “gli idioti dell’orrore”, nelle medesime situazioni, compirebbe mai, né il giallo si risolverebbe se non fosse prima architettato in scaletta per compiacere il lettore (senza motivazioni l’omicidio è perfetto, non ha bisogno di narrazione). La risposta è già nella faccia paracula dell’embarassing wiseass quando sorpreso a gettare le prove del reato nel Mississippi risponde con la patta aperta all’agente di polizia che stava solo pisciando per un tumore (again!) alla prostata. Mentire per salvare la pelle a un figlio pare certo socialmente accettabile, al pari di confessare l’accaduto, prendersi le responsabilità e scontare la pena (“Yes… you can. You have to… and you will. Or we die”) anche incastrando un altro, soltanto presunto innocente, che siamo tutti vittime di questo mondo, e non ci salva certo il colour-blind casting, disposto dietro tornaconto pure a dichiararsi colpevole, tanto se non è una gabbia è una voliera, ma il rischio della menzogna è che ti riveli ancora e di nuovo a te stesso “and wherever you are you will be found”. Senza l’artificio di una morale pubblica, protetto dall’anello di Gige dell’anonimato, l’individuo sceglie ciò che è più vantaggioso per sé, i confini tra cosa giusta e criminale si fanno più sfumati, in una casa shotgun puoi anche vedere cosa succede in bagno e oggi può anche essere ieri. Being Michael Desiato. O Dylan Thomas. Sempre Bryan Cranston. Viva Heisenberg!

Industry serie tv

Non c’è felicità nei pollai, lo sanno per prime le galline, che una volta almeno si davano alla fuga e oggi si accontentano di becchettare a zonzo con l’unica mira di produrre giù per terra uova migliori quando non fanno, tra i padroni dei Mercato e i galletti che si danno arie di sapere come va se non il mondo almeno il giro del fumo, a cuccia e in postazione per il turno sul calcinculo, l’unica fermata dell’ascensore sociale che non sale proprio perché gira in tondo e al medesimo piano, quando non fanno, le galline, si diceva, la fine del tacchino di Russell.

Anni a studiare scienze economiche, i neo laureati arrivati con l’anello al naso per lo stage premium con in palio la selezione naturale (ma nel gregge la pecora nera – “That gal called Harper” sia chiaro, ​che non vorremmo essere costretti a fare kneeling, condannati alla gogna di Twitter che trova offensivo qualunque cosa definisca l’identità, avendo di mira l’omologazione universale, a partire dalla lingua, trovando sia più rispettoso essere indicato come generico nulla, “You have to say this guy!”, ma allora anche Lives Matter perché specificare Black, vero Demba Ba? quando piuttosto razzismo significa essere scelti ad hoc perché la produzione si vuole dimostrare progressista utilizzando per semenza una coppia gay clandestina e come main course una ragazza di colore, niente da dire a proposito Kamala? – il certificato se lo fa falsificare, e poiché di soldi veri ghe n’è minga, si baratta direttamente il culo in faccia su Skype: tanto è chiaro che serve di più nella vita saper twerkare se tutti belano allo stesso modo con uguale competenza: i dread da rasta faranno tanto foglia di fico per i capi che si vorrebbero up to grade, e credono che, siccome lo dice Lena Dunham, a New York si faccia così, per non passare come i soliti cockney provinciali col taglio istituzionale da broker, ma la mente in azienda è meglio versione tabula rasa così i Managing Director non hanno neanche l’incombenza del reset e i Junior Account quella di scollegare il cervello) sono pronti per imparare quello di cui un pischello a quattro anni diffida se ha in casa il libro di Collodi: convincere qualcuno a cedere denaro nella speranza che aumenti. I soldi si fanno coi soldi è il mantra della serialità capitalistica, lo sanno pure a Brera Guido Maria, meglio se sono quelli degli altri, sono tasse evase o hanno bisogno di un ciclo a novanta gradi. Negli incubatori che, sverniciati, non sono molto diversi dagli open space dove ai boomer insegnavano a costruire piramidi coi risparmi della nonna, o a camminare sui carboni accesi e ora ti mandano a prendere invece del caffè l’insalatona salutista, consigliano la mindfulness per imparare a essere “quiet and nice” sul posto di lavoro, promettono, una volta si accontentavano di un generico miraggio di carriera, invece ti vogliono soltanto, come sempre, ubbidiente e performante da tastiera – i consigli sbagliati sulla necessità di “fare una buona impressione” quando ti spronano a essere “foolish” metaforicamente e “hungry” fuor di metafora: a essere te stesso ma se sei come ti vogliono e pure stronzo a comando quando si tratta di fare il lavoro sporco al posto loro – e arrivare a fine mese e farti ricominciare daccapo a covare uova d’oro, non di certo felice ma almeno soddisfatto per come “you feel right now”, conta solo la gerarchia perché le parti in commedia sono già assegnate dal principio, pure la meritocrazia è un’illusione se gareggi contro i nati vincenti che hanno fatto scuole migliori né ti salvano più nemmeno quelle che una volta si chiamavano prestazioni fuori orario perchè a impegnarsi di più, hanno imparato a controbattere quelli col culo parato, si dimostra solo d’essere consci di contare di meno (col rischio concreto di lasciarci dopo le piume pure le penne) e i soldi alla fine chi li ha si gode pure il lusso di disprezzarli perché tanto, ammette Harper, fanno più gola a lei che non li ha mai avuti.

Nella City sberluccicante tutti paiono giovani, carini e occupati a competere per il proprio posto al sole opaco di Londra e una qualche redenzione, sempre al di là dei vetri, comunque, perché nei pollai una cosa te l’hanno venduta e bene: la speranza di un mondo al di fuori anche se poi, pure se peschi il biglietto vincente, al massimo c’è solo un altro cubicolo, o dancefloor o dehor di ristorante o camera in affitto dove rimuginare sarcastici senza farsi troppe domande se non si è così sprovveduti da non sapere che è un lavoro dimmerda attorniati da coetanee che non lavorano nella finanza ma affittano stanze in condivisione perché stanno “semplicemente vivendo” (di rendita sulle necessità altrui), o fidanzati fricchettoni che cercano tutta la vita il lavoro che gli piace con lo stipendio pagato da startuppari strafatti che confondono se stessi con l’azienda come i cumenda con la fabbrichetta, e mamme che lavorano nell’editoria e perciò l’unico consiglio che possono dare è di fare un buon matrimonio mentre loro si consolano pensando d’essere in grado di scoprire nuovi talenti che facciano coccodé. Un nuovo bastimento carico carico di vecchie umane ambizioni sbarcato non dai gommoni ma sulle zeppe di Zara, pronto a sacrificarsi nel nome della realizzazione di un sé che, a guardarlo bene, è il sé di tutti, e proprio perché di tutti si dovrebbe almeno avere il sospetto non sia nemmeno un sogno ma solo un simulacro.

Nella fantasia delle scuole di scrittura creativa, che altro se non altri pollai?, gli ambienti sono tratteggiati tutti simili: gli sceneggiatori pensano davvero che, trattandosi di favole, il Sales Manager davvero vada in giro tra i cubicoli in mutande o strizzano l’occhio credendo d’essere furbetti? O che Gus si appunti in esergo alla “Fiera della vanità” gli step di una carriera a tutto gas, per accrescimento rapido negli allevamenti intensivi, che a 55 anni dovrebbe portarlo a fare che? il premier? Se lavori nella finanza dovresti almeno saper bilanciare oneri e onori e accettare un ruolo pubblico solo a tua insaputa se no, da ministro – povera quella Sanità che ha bisogno dei Ferragnez! -, ti trovi a pagare le tasse in Italia e non ti danno nemmeno l’Ambrogino d’oro. E nemmeno si accorgono gli scenografi d’essere indietro d’un bel pezzo sul mondo che non è quello stereotipo che si limitano a riprodurre senza aver mai visto l’originale (nemmeno l’ombra, ma l’ombra di un’ombra nella caverna platonica): gli open space s’adatteranno meglio alla scrittura cinematica delle scontate invidie, dei bullismi da caserma, degli amorazzi intrallazzoni sotto l’occhio di esperti kapò che fingono d’interessarsi al business ma sanno da un pezzo di volere ciò che non hanno più, da vampiri, la giovinezza altrui, e con la scusa del marketing si provano ad arraffare qualche scampolo di potere o piacere sessuale (in nome della parità, pure le manager con la gonna gonna gonna si tolgono le proprie soddisfazioni indotte nel nome della pseudo emancipazione che livella tutto sulla bassezza delle aspirazioni dei maschi babbioni, solo un altro modo, il loro, per restare nella comfort zone dell’omologazione e per gli storyteller di illudersi di non cadere nel cliché), ma fuori dalla versione del mondo secondo HBO-BBC il Capitale s’è fatto più furbo e corre come la tartaruga sempre un passo avanti a ogni sua raffigurazione. Stop con gli ambienti condivisi dagli heighties degli impiegati alla Pupi Avati e tutti a casa d’ora in poi con lo smartworking, da soli coi propri demoni sbagliati, legati come Pinocchio alla catena delle ambizioni frustrate, convinti d’essere più liberi e imprigionati invece al proprio ip, presto pagati a cottimo e sorvegliati dai pc mentre ci si illude di riappropriarsi dei propri spazi, a casa ma chiusi dentro, col risultato di rimpiangere i bei cessi d’ufficio di una volta dove si scaricava, tra uno specchio e un orinatoio, come fosse un pettegolezzo biologico, quel che restava della vita e della morte.

Fare una presentazione in PowerPoint è il nuovo fare le fotocopie alla Pierpoint & Co., come si chiedesse di fare trading agli editor della Piersilvio di Cologno Monzese, e se è un attimo confondere il times con l’helvetica, il peggio è darsene pena, che chi così comincia, senza saper distinguere tra la forma (di ricatto) e la sostanza (di cui son fatti i sogni), è un momento che si ritrova a ubbidire quando si tratta di fare cento uova, o cento telefonate, “a lavorare il doppio per ottenere la metà”, a esultare per un rilancio su Dagospia o dannarsi a cercare l’edizione di Harry Potter prima che esca in libreria solo per accondiscendere una povera diavola con la pochette di Prada.

Non è quanto né come lo guadagni, che ti definisce, ma come li spendi i soldi, se no ti avanza la settimana bianca se sei un povero nero, o il black friday se sei un povero bianco, e se hai la botta di culo del dilettante, un contratto in mano e la carta aziendale, a una camera d’hotel di lusso, dove mangiarsi da soli un hamburger a letto in accappatoio, dopo averlo fotografato su InstaGnam, è preferibile “un panino raccattato per terra” col sapore del paradiso, alla fermata all’angolo dove tirare mattina aspettando i bus rossi a due piani, in barba al coprifuoco, in compagnia del virus coronato che come i reali predilige le ore piccole e apre le gabbie al popolo quando c’è da spendere la tredicesima (gli altri giorni tutti in coda per il pane in viale Tibaldi): l’unico posto che resta, nel quadro se non ti rassegni a vivere da quadro, per restare nell’autentico.

È un attimo nella Industry passare da gallina a maiale, se accetti di toglierti l’anello al naso perché ti dicono, per il tuo bene, che non sei una mucca. Non è un mondo per poveri se si fanno sogni da poveracci (i “many” del Labour party sono vacche nere con uguali aspirazioni ai “few” e “quelli che pensano con la loro testa” sono parte del folclore). Al limite, mentre fai pace con “Vanity Fair”, all’Harper’s Bazaar, puoi scaricare l’app che ti rende indietro il 10% degli acquisti in cashback (e non è nemmeno così).